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"La nostra battaglia per salvare il cuore dal Covid-19"

Parla Maurizio Pesce a capo della Unità di Ricerca in Ingegneria tissutale cardiovascolare del Monzino che con lo Spallanzani sta affrontando uno dei nodi del virus pandemico: l'attacco al cuore

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1 Ottobre 2020 - 17.45


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di Daniela Amenta

Ha 54 anni Maurizio Pesce, biologo specializzato in biotecnologie, e ancora un leggero accento romano nonostante abbia lasciato la Capitale da tempo. Dal 2014 è a capo della Unità di Ricerca in Ingegneria tissutale cardiovascolare del Monzino, l’Istituto milanese a carattere scientifico interamente ed esclusivamente dedicato alla ricerca, alla cura e alla prevenzione delle malattie cardiovascolari. Una grande eccellenza italiana. Pesce, che è membro permanente di due importanti Gruppi di lavoro della Società Europea di Cardiologia – il WG on Cellular Biology of the heart e il WG on Atherosclerosis and Vascular Biology -, guida un giovane staff, cinque apprendisti under 30, che lavorano con lui e a stretto contatto con medici e cardiochirurghi.
Questo piccolo gruppo sta studiando le relazioni tra COVID-19 e danni cardiaci con la collaborazione dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma e dell’azienda di ricerca biomedica React4life. Il team ha ottenuto dalla Regione Lombardia il finanziamento per un progetto di ricerca semestrale dal titolo “Effetti dell’infezione da COVID-19 sull’infiammazione e la fibrosi cardiaca. Modellizzazione in vitro: Cardio-COV”.

Dottor Pesce, come nasce questa ricerca – Cardio-COV – e a che punto è?
Ho iniziato a pensare alle relazioni tra danno cardiaco e COVID-19 durante il lockdown. Un momento in cui tutti noi abbiamo avuto più tempo per pensare, riflettere, informarci. Sono un ricercatore curioso e mi hanno subito colpito i primi studi che arrivavano dalla Cina tra febbraio e marzo di questo terribile 2020. Parlavano di pazienti in terapia intensiva con problemi cardiaci e un generalizzato aumento dei marcatori di danno miocardico. All’inizio, non mi sembrava sorprendete che il cuore di pazienti gravi andasse in sofferenza, data la bassa saturazione di ossigeno nel sangue. Poi, però, è arrivata una ricerca del Policlinico San Matteo di Pavia, seguita da altre a livello internazionale, che riferiva la presenza di particelle virali nelle biopsie del cuore dei pazienti COVID-19. Ho quindi iniziato a pensare che il virus potesse colpire il cuore direttamente, ed essere la causa di danni come aritmie e scompenso fulminante specialmente nei soggetti più fragili. A metà aprile arriva il bando di ricerca della Regione Lombardia che riguardava proprio le interazioni tra il virus e l’ospite. A questo punto contatto la mia vecchia collega di corso, Alessandra Amendola virologa dello Spallanzani, e Silvia Scaglione, la responsabile scientifica di React4Life, una startup innovativa del milanese che conosco da tempo. Spiego loro le mie idee e propongo una collaborazione per verificare l’effetto del virus sulle cellule stromali cardiache umane di cui già disponiamo al Monzino.

Insomma si sa che il virus danneggia il cuore, ma non si conoscono i meccanismi molecolari che creano questo danno?
Esatto. La domanda che ci siamo posti è questa: il danno sistemico causato dall’infezione può colpire direttamente il cuore mediante l’interazione del virus con le cellule cardiache, oppure attraverso un meccanismo indotto dall’aumento delle citochine infiammatorie circolanti? La risposta è stata sorprendente ed è venuta dalla misurazione dei livelli della proteina ACE2 presente sulle cellule stromali di soggetti diversi. ACE2 è la ‘porta di ingresso’ che permette l’entrata del virus e la sua replicazione all’interno delle cellule. I nostri risultati suggeriscono che vi sono soggetti le cui cellule esprimono alti livelli della proteina ed altri le cui cellule ne esprimono molto meno. E che questa variabilità è alla base della potenziale differenza nell’ infettività del virus. In pratica, alti livelli di ACE2 favoriscono l’infezione e la replicazione del virus, mentre bassi livelli sembrerebbero sfavorire questi processi. Il quadro però è più complesso. Infatti, indipendentemente dai livelli di ACE2, il contatto tra virus e cellule stromali cardiache induce un’evoluzione infiammatoria delle cellule stesse, e quindi una risposta comunque nociva per il cuore. A oggi non sappiamo ancora perché soggetti diversi abbiano livelli di ACE2 così variabili. Resta il fatto che questa variabilità sembra spiegare perché le conseguenze cardiache del COVID-19 sono così variegate.

Per arrivare a questi risultati avete utilizzato particolari tecnologie?
Sì, stiamo operando con una tecnologia all’avanguardia, messa a punto da React4life: si chiama MIVO (Multi In Vitro Organ) e consente di ospitare e coltivare in condizioni fluido-dinamiche controllate e in sterilità cellule, tessuti 2D o 3D, o biopsie di pazienti, riproducendo in vitro condizioni fisiologiche vicine a quelle reali, senza bisogno di sperimentazione su animali.

Come abbiamo detto lei lavora con un team di giovani. E questo è un bene in assoluto, ma forse ancora di più per la ricerca.
È vero. Lavoro con giovani biotecnologi e ingegneri, alcuni neolaureati, altri ancora nel loro periodo di Dottorato; tutti pieni di voglia di capire, di contribuire, carichi di entusiasmo. Perché questa ricerca, oltre che dal punto di vista scientifico, ci tocca e ci coinvolge dal punto di vista umano. Io abito nella parte più orientale della provincia di Milano, al confine della bergamasca. Una tra le zone più colpite d’Italia da COVID-19 dove si moriva nelle Rsa, ci si ammalava senza speranze, dove l’esercito portava via le vittime sui camion. Non ci si può esimere, va fatto un gesto. Al Monzino, nei mesi più duri, noi ricercatori abbiamo lavorato nei laboratori anche di notte, h24, pur di contribuire a migliorare le diagnosi e a trovare risposte e soluzioni.

Ce la faremo, dottor Pesce, a sconfiggere questo virus?
Non ho dubbi.

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