Secondo alcune rilevazioni, un oncologo, durante la sua carriera, comunica una brutta notizia non meno di 200.000 volte. Chi gli insegna come si fa? Oggi ci pensano, sempre più spesso, i corsi universitari, che includono esami di psicologia medica e comunicazione tra medico e paziente. Ma per la generazione di medici attualmente in servizio l’unico strumento a disposizione spesso è la propria capacità empatica, affinata dall’esperienza. Con tutte le conseguenze: errori, cattiva gestione dei caregiver, burn out (grave depressione del medico stesso) e così via. Anche per questo l’Istituto nazionale tumori, insieme all’Università degli studi di Milano, ha recentemente dato il via, nell’ambito della Scuola di specializzazione in oncologia, la cattedra di psiconcologia, subito ribattezzata “di umanità”.
A dirigerla è Gabriella Pravettoni, docente di psicologia delle decisioni dell’ateneo milanese e direttore del servizio di psiconcologia dell’Istituto europeo di oncologia che, nel presentare il corso, ha posto l’accento proprio sui familiari. Non a caso, il corso è specificamente strutturato in modo da formare i medici e gli studenti a includere anche loro in tutte le fasi della malattia, dalla diagnosi al fine vita.
Molti studi dimostrano proprio il bisogno di una formazione spcifica; su tutti, uno dell’Università di Seattle presentato a un recente congresso dell’American Society for Radiation Oncology nel quale 137 operatori (tra chirurghi oncologi, radioterapisti e oncologi medici) hanno risposto a una serie di domande sul tema e ammesso, in due terzi dei casi, che, anche se la comunicazione di notizie negative fa parte della routine quasi quotidiana, la loro preparazione su questo aspetto è stata carente.