Covid-19, che cos'è l'immunità di gregge e perché ci protegge

Perché alcune persone pur avendo "incontrato" il virus non si ammalano? Gli immunologi di La Jolla in una ricerca spiegano il ruolo delle cellule T, quelle prodotte dal nostro organismo dopo un'infezione

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18 Agosto 2020 - 10.28


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Non è ancora una buona notizia ma un’ipotesi. Eppure contiene un buon grado di speranza. Pur senza essere stata a contatto con il virus, una buona parte della popolazione potrebbe avere cellule immunitarie in grado di riconoscere SARS-CoV-2, il che forse potrebbero portare a un vantaggio nel combattere l’infezione. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Nature Reviews Immunology dagli esperti del Center for Infectious Disease and Vaccine Research presso La Jolla Institute for Immunology, secondo cui alcune persone potrebbero presentare un grado di protezione sconosciuto.

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“Quello che abbiamo scoperto – spiega Alessandro Sette del Center for Infectious Disease and Vaccine Research – è che circa il 50 percento dei soggetti che non sembravano essere stati esposti al virus presentava una certa reattività delle cellule T, quelle che l’organismo produce a seguito di un’infezione per fare in modo di riconoscere lo stesso agente patogeno in futuro”.

Il team ha confrontato campioni di sangue prelevato da pazienti COVID-19 con campioni prelevati a San Diego tra il 2015 e il 2018. “Avevamo la certezza – continua Shane Crotty, collega e coautore di Sette – che i pazienti degli anni scorsi non fossero stati esposti a SARS-CoV-2, eppure circa la metà dei campioni presentava reattività”.

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Pubblicato in prima revisione sulla rivista Cell a fine giugno, lo studio degli esperti, che potrebbe implicare una predisposizione all’immunità per una percentuale significativa della popolazione, sembra essere ora confermato da altre ricerche, condotte in laboratori differenti in altre parti del mondo, con tecniche diverse e variazioni nelle metodologie. “Una possibile spiegazione – aggiunge Sette – è che questo riconoscimento da parte delle cellule T potrebbe essere dovuto in parte all’esposizione di uno dei quattro coronavirus circolanti noti, causano il raffreddore comune in milioni di persone ogni anno. Si tratta di un dibattito ancora aperto, stiamo lavorando per avere risposte”.

Gli esperti precisano che il ruolo delle cellule T nei confronti dell’infezione dovuta a SARS-CoV-2 deve essere ancora esplorato a fondo. “Non sappiamo ancora – osserva Crotty – se il riconoscimento da parte delle cellule T sia positivo o meno, ma pensiamo che sia ragionevole ipotizzare che possa portare a una maggiore efficienza del sistema immunitario”.

Secondo il ricercatore, infatti, questo potrebbe portare a sviluppare sintomi meno gravi. “Non sorprende – commenta Arturo Casadevall, direttore del Dipartimento di Microbiologia molecolare e immunologia della Johns Hopkins School of Public Health – perché i coronavirus sono correlati tra loro, e ogni anno ci imbattiamo in un nuovo ceppo. È altamente probabile che le cellule T abbiano imparato a reagire a questa famiglia di virus. Quello che è fondamentale scoprire riguarda gli effetti di questa reattività”.

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Casadevall ha esplorato l’idea del motivo per cui l’infezione da SARS-CoV-2 si manifesti in modi così disparati nella popolazione, discutendo i risultati in un articolo pubblicato su Bloomberg.com. “Una delle variabili – spiega il direttore del Dipartimento di Microbiologia molecolare e immunologia della Johns Hopkins School of Public Health – è la storia immunologica, che riguarda il trascorso sanitario del paziente, malattie, infezioni, vaccini, disturbi patologici e tutti i fattori che influenzano le reazioni immunitarie. Tra le poche cose che abbiamo scoperto di COVID-19 è che le problematiche più serie derivano dalla risposta immunitaria, la cosiddetta ‘tempesta di citochine’, per cui non sappiamo ancora se la reattività delle cellule T sia da considerarsi positivamente o meno, e neanche se sia la stessa per ogni individuo”. Il ricercatore sottolinea infatti che, se per alcuni l’azione delle cellule T potrebbe portare a sviluppare COVID-19 in forma lieve o asintomatica, per altri potrebbe provocare una reazione immunitaria eccessiva. “I dati sono ancora in qualche modo preliminari – afferma Sette – ma sembra che la risposta immunitaria dipenda dal sistema immunitario innato, non dalle cellule T”. Gli sforzi per la vaccinazione, sottolineano gli autori, dovranno tenere conto di queste scoperte.

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